16 marzo 2023

Molte le incertezze legate al recesso «consensuale»

Le chiusure del mondo notarile sembrano contraddette dalla Cassazione

Le chiusure del mondo notarile sembrano contraddette dalla Cassazione.

Nell’ambito delle società di capitali, un’ipotesi particolarmente problematica, fin dalla sua più corretta definizione, attiene al c.d. recesso “convenzionale”, “consensuale” o “una tantum”.

Si tratta di espressioni tendenzialmente utilizzate per indicare il caso in cui, in assenza delle condizioni previste dalla legge o dallo statuto, si riconosca al socio la possibilità di sciogliersi dal rapporto che lo lega alla società, ottenendo la liquidazione della sua partecipazione. Da questo punto di vista, quindi, non appare puntuale la qualifica di recesso “convenzionale”, che potrebbe comunque far pensare a un accordo raggiunto in sede statutaria.

Secondo la massima n. 6/2016 del Consiglio notarile di Roma, Velletri e Civitavecchia, nel diritto delle società di capitali non esisterebbero ipotesi di “recesso” se non in presenza di condizioni predeterminate dalla legge o dallo statuto, con la conseguenza che non sarebbe neppure astrattamente possibile ragionare del recesso in questione.

Al di fuori delle ipotesi di recesso, al fine di consentire il disinvestimento di un socio si dovrebbe procedere seguendo le discipline relative all’acquisto di azioni proprie o alla riduzione reale del capitale sociale, che può attuarsi anche in modo non proporzionale.

Diversa la posizione assunta dal Consiglio notarile di Firenze, Pistoia e Prato, che, con la massima n. 53/2015, ha ritenuto ammissibile il “recesso consensuale”, ma precisando, nelle motivazioni, che la fattispecie non realizza un recesso dalla società se a tale definizione si ascrive il corretto significato di diritto individuale potestativo di ottenere la liquidazione della partecipazione. Nella circostanza, infatti, non vi sarebbe alcun diritto, trattandosi, piuttosto, di una concessione.

Si afferma, quindi, che l’ipotesi in esame si realizza quando tutti i soci, con delibera assunta all’unanimità, acconsentano alla liquidazione di uno di essi con denaro o beni sociali, anche qualora non sussista una causa legale o statutaria legittimante l’esercizio del diritto di recesso. Il rimborso del socio potrà essere effettuato utilizzando riserve disponibili o, in mancanza, riducendo il capitale sociale. Tuttavia, non trattandosi di recesso in senso proprio:

- l’opposizione dei creditori sociali, ai sensi dell’art. 2482 c.c., impedirebbe la liquidazione della quota e non determinerebbe lo scioglimento della società;

- l’entità del rimborso spettante al socio uscente sarebbe liberamente negoziabile e non dovrebbe essere determinata nel rispetto dei criteri legali.

Sulla questione è da registrare anche un intervento della giurisprudenza di legittimità. Ci si riferisce alla – in verità – non chiarissima sentenza n. 22349/2015 della Cassazione. In questa decisione, in relazione a una srl il cui statuto non prevedeva ipotesi di recesso ulteriori rispetto a quelle legali, si è precisato, innanzitutto, come l’unica ipotesi di recesso di tipo convenzionale possa ricorrere nel caso in cui l’organo deliberativo o gestorio dell’ente accetti il recesso, dopo averne verificato la validità e l’efficacia.

Si tratta di un passaggio motivazionale che, ammettendo in via alternativa (come sembra desumersi dall’utilizzo della “o” tra organo “deliberativo” e organo “gestorio”) una accettazione da parte del solo organo gestorio, appare implicitamente escludere la necessità di una volontà unanime dei soci.

Si sottolinea, inoltre, come, nel caso di specie, tale delibera di accettazione del recesso esercitato dal socio non potesse desumersi né da alcune dichiarazioni contenute nell’atto di costituzione della società in altro giudizio, né dalle risultanze del processo verbale di conciliazione del medesimo processo.

Rispetto a ciò – sembra dire la decisione in esame – sarebbe anche possibile una revoca unilaterale della delibera di accettazione (contrariamente a quanto affermato, anteriormente alla riforma del diritto societario, dalla sentenza n. 3114/1996 della Cassazione).

Tale soluzione – sempre secondo le indicazioni della Suprema Corte – troverebbe conferma nell’ultimo comma dell’art. 2473 c.c., ai sensi del quale il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se la società “revoca la delibera che lo legittima” (o se è deliberato lo scioglimento della società). Norma che non solo recherebbe la conferma testuale del fatto che il recesso può avvenire in forma convenzionale solo mediante delibera societaria di accettazione, ma “codificherebbe” anche la possibilità di revoca unilaterale della deliberazione di accettazione delle dichiarazioni di recesso.

Si tratta di un’affermazione che non appare condivisibile. Come precisato anche dalla sentenza n. 4265/2018 del Tribunale di Palermo, infatti, la delibera alla quale fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 2473 c.c. non è quella di accettazione delle dichiarazioni di recesso, bensì quella che “legittima il recesso”; vale a dire una delle delibere individuate nel comma 1 della medesima norma, a fronte della cui adozione il socio ha diritto di recedere.

Maurizio Meoli - Eutekne