La questione ha riguardato costi, originariamente ritenuti inesistenti e recuperati a tassazione, in capo ad una società di capitali a ristretta base partecipativa; costi che lo stesso ufficio, con successivo atto di irrogazione di sanzione (articolo 6, comma 9-bis 3, Dlgs 471/1997) ha riconosciuto per gran parte esistenti. Tuttavia, in data successiva, l’ufficio notificava ai soci atti di accertamento che imputavano ai soci, per trasparenza, un maggior reddito di partecipazione determinato in base all’ammontare dei costi originariamente ritenuti inesistenti.
Il mancato riconoscimento, nell’ambito degli accertamenti per trasparenza ai soci, di quei costi successivamente riconosciuti ed effettivamente sostenuti dalla società partecipata, è stato correttamente censurato, come illogico e contraddittorio, dalla Cgt Lombardia in virtù del comma 5 bis dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992 secondo cui «il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria». Analogamente l’ordinanza n. 25267/2024 di Cassazione ha deciso che la riduzione dell’accertamento di utili extracontabili della società a ristretta base partecipativa comporta, in pari misura, la riduzione dell’accertamento del maggior reddito di partecipazione in capo al socio.
I costi imputati alla società ritenuti, ab origine, inesistenti, ma successivamente in parte riconosciuti come effettivamente sostenuti dalla società partecipata, vanno quindi parimenti riconosciuti nell’imputare ai soci, pro quota, il maggior reddito accertato alla società partecipata. Il presupposto sul quale è fondato il maggior reddito accertato ai soci e la quantificazione della sanzione a carico della società è, infatti, lo stesso: ammontare dei costi per operazioni ritenute inesistenti.
La diversa conclusione, oltre che giudicata illogica e contraddittoria è apparsa contraria ai criteri di determinazione del reddito (un costo o c’è o non c’è, un’operazione o esiste o non esiste). L’atto impositivo non poteva, quindi, essere fondato su fatti e presupposti arbitrariamente e contraddittoriamente assunti con opposti significati per giungere a differenti pretese impositive.
Il Sole 24 Ore - Alessia D’Andrea