05 settembre 2025

Spese per l'abbigliamento deducibili se l'outfit è previsto per contratto

«Siccome io indosso la giacca e la cravatta solo per andare in ufficio, sarebbe giusto che il costo fosse deducibile dal reddito come spesa strettamente inerente: è lo stesso principio per cui si ritengono deducibili le spese anti-infortunistica degli addetti al cantiere o le divise dei camerieri...».

Ragionamenti simili non sono rari da parte di professionisti, artisti o imprenditori, per cui (anche solo per curiosità) può essere interessante verificare come la giurisprudenza tributaria di merito abbia affrontato la situazione di coloro che, evidentemente, hanno deciso di mettere in pratica il principio, scontrandosi contro una (facilmente immaginabile) “resistenza” da parte dell’agenzia delle Entrate in sede di verifica.

Come emerge dalla tabella in pagina (a destra), la fattispecie non è rara: anche nel 2025 la Cgt di Brescia ha esaminato il caso di un imprenditore che aveva dedotto spese per «borse, abbigliamento, accessori, monili, etc.» ricondotti all’uso personale e, di conseguenza, considerati non deducibili dal reddito d’impresa.

Il tema, è chiaro, è quello dell’inerenza, concetto non direttamente definito dalle norme fiscali ma, nel tempo, delineato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nel senso della riferibilità (anche indiretta, potenziale o in proiezione futura) del costo sostenuto non ai ricavi, bensì all’attività d’impresa o professionale complessivamente considerata, escludendo di conseguenza le spese che si collocano in una sfera estranea all’esercizio della stessa (fra le tante, recentemente, pronunce 9568/2025, 9132/2025, 8922/2025 e 8700/2025). Un concetto, quindi, più di tipo “qualitativo” che “quantitativo” (anche se l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza) e, come tale, da adattare alle singole situazioni, essendo difficilmente standardizzabile in una “ricetta” valida per tutte le attività di impresa o professionali.

Nonostante alcune critiche in ambito dottrinale, la Suprema Corte sembra abbastanza ferma nell’addossare al contribuente l’onere di dimostrare la sussistenza (nel singolo caso specifico) dell’inerenza, anche se è l’agenzia delle Entrate in sede di accertamento a dover giustificare le motivazioni alla base della ripresa fiscale. L’orientamento della Cassazione, presumibilmente, costituisce una conseguenza del «principio di vicinanza della prova», che, in deroga all’articolo 2697 del Codice civile, attribuisce l’onere probatorio sulla parte che, per la sua posizione, è più vicina alla fonte di prova o ha maggiore facilità nel fornirla, almeno per le spese il cui collegamento con l’attività svolta dal contribuente presenta profili di dubbio. Cosa che, naturalmente, non si verifica (e la deducibilità dei costi appare difficilmente contestabile) con riferimento all’abbigliamento “tecnico”, indispensabile (se non addirittura obbligatorio) allo svolgimento dell’attività (camici, divise, etc.) e, dunque, inerente.

Leggendo le sentenze, appare chiaro che tra la toga dell’avvocato (il cui utilizzo al di fuori delle aule del tribunale è impensabile) e il «doppio petto» (che ben può essere sfoggiato anche nelle cene tra amici o in ricorrenze private) c’è una differenza significativa.

Non sono mancate, tuttavia, pronunce che in casi specifici ipotizzano la deducibilità parziale anche di un certo tipo abbigliamento, in particolare laddove l’attività viene esercitata dal contribuente in presenza di vincoli contrattuali che impongono l’uso di un determinato outfit (come showgirl, artisti): in questi casi si è spesso applicata una deducibilità del costo al 50%, stante l’assenza di un parametro certo in base al quale valutare la destinazione della spesa sostenuta.

Per attività meno caratterizzate dall’estetica, invece, l’utilizzo di un abbigliamento elegante allo scopo di creare «una buona immagine» non è quasi mai stato considerato sufficiente a legittimare la deduzione del relativo costo, trattandosi di una motivazione ritenuta troppo generica ed astrattamente riferibile ad ogni situazione di tipo imprenditoriale o professionale.

Anche in questo caso, tuttavia, si incontrano alcune eccezioni: ad esempio, la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Torino (sentenza n. 959/2/24) ha considerato deducibili, ai fini della determinazione del reddito di lavoro autonomo di un commercialista, i costi per l’acquisto di capi di abbigliamento. Nel caso specifico, sono state valorizzate le particolari e importanti cariche ricoperte dal professionista, il fatto che quest’ultimo fosse proprietario di un noto studio professionale, nonché la circostanza che egli fosse «tenuto a indossare abiti di qualità in occasione degli incontri con i clienti o in occasioni pubbliche, adeguati al decoro che la professione impone».

IlSole24Ore - Giorgio Gavelli e Renato Sebastianelli